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Un Cassiodoro bellissimo di Matteo da Milano
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Splendida foto, di cui siamo grati al chiarissimo professor Lorenzo Viscido che ha voluto pure onorarci di qualche rilievo e puntualizzazione; i quali danno a lor volta adito a qualche rilievo e puntualizzazione da parte mia, ed ecco qua:
(1) Nella nota 1 della sua dotta disquisizione l’illustre studioso squillacese professor Lorenzo Viscidorileva che “in occasione del convegno di studi su Cassiodoro tenutosi a Squillace nel novembre del 2012″ il dottor Giorgio Leone,”critico d’arte” “ignorava questa miniatura”. Critico d’arte, certo, ma il dott. Leone e’ anche direttore della Galleria Corsini a Roma per la Soprintendenza ai Beni Culturali; ed il convegno del novembre 2012 aveva un nome ed un tema ben precisi: “Cassiodoro: vir religiosus, beatus, sanctus”. Il tema del convegno era cioe’ Cassiodoro considerato come religioso, beato e santo, e nel quadro di questo tema la relazione del dottor Leone, come il professor Viscido indubbiamente ricorda, considerava l’iconografia, cioe’ le immagini, che attestano la fama di santita’ di Cassiodoro o quelle riconducibili ad un modello tardoantico che effettivamente era un ritratto di Cassiodoro. L’iniziale miniata del Laur. Plut. 67,22 non raffigura Cassiodoro, ma Giuliano de’ Medici, e certo non in veste di santo. Pertanto la miniatura, pur splendida, c’entra con l’iconografia di Cassiodoro religioso, beato e santo come i classici cavoli a merenda.
[continua]
[continuazione del commento precedente di Luciana Cuppo]
(2) Il multibenemerito professor Lorenzo Viscido “puntualizza” che l’espressione “servus Dei” ricorre gia’ in alcuni manoscritti “anteriori al XVsecolo”. E sfido; “servus Dei” oppure “conversus”, che vogliono dire entrambi “religioso” nel senso di “monaco” si trovavano gia’ nell’archetipo di numerosi manoscritti vivariensi; ce ne resta uno, il codice XXXIX della Biblioteca Capitolare di Verona, un codice vivariense con note autografe di Cassiodoro, che attribuisce il testo a Cassiodoro “conversus”, cioe’ fattosi monaco. I lavori pubblicati da Cassiodoro fattosi religioso e quelli posteriori hanno “conversus” o “servus Dei”, quelli anteriori hanno i titoli onorifici di Cassiodoro Senatore.
Ma tant’e’, il Cassiodoro vir religiosus, beatus, sanctus o servus Dei sono concetti che il colendissimo professor Lorenzo Viscido non sembra disposto a recepire. Egli conclude la sua erudita disquisizione affermando che nel monastero Vivariense Cassiodoro “oltre a fini culturali, persegui’ anche fini religiosi con profonda dedizione a Dio”, e cosi’ scrivendo dimostra ancora una volta di capire, o di voler capire le cose esattamente alla rovescia. Perche’ Dio era il centro della vita di Cassiodoro, e si sarebbe dovuto dire che Cassiodoro, oltre a fini religiosi – per esempio l’affermazione del dogma cattolico contro varie eresie – persegui’ anche fini culturali. Perche’ avvenne a Cassiodoro cio’ che,ci ha detto nostro Signore, avviene a tutti noi: cercate prima il regno di Dio ed il resto vi verra’ dato per sovrappiu’. Se non c’e’ Dio al primo posto anche la cultura si affloscia, si affloscia assai.
Ma questo “cercare il regno di Dio”, mettere cioe’ Dio al primo posto, non viene recepito dalla pseudocultura di ispirazione laicista-massonica, da Lenormant ad Antonio Marincola Politi (Il segreto dei Bretii) a Franco Cardini (Cassiodoro il Grande)fino a Lorenzo Viscido, che di questa pseudocultura si fa fedele portatore. E’ una pseudocultura che, contro ad ogni verita’ storica, vede in Cassiodoro il fondatore della prima universita’ europea, ma non vede in lui l’uomo religioso, beato, santo; al punto da tacere il nome di un convegno a cui si era stati invitati precisamente per parlare di queste qualita’ storicamente accertabili e di sostituire all’immagine di Cassiodoro quella, laica e rinascimentale, di Giuliano de’ Medici.
Ahimè! Credevo che, a seguito delle Sue molteplici figuracce, Lei si fosse rinchiusa nel totale silenzio. E invece, pur se con somma gioia, noto ancora una volta che i Suoi rilievi non hanno né capo né coda. Si tratta solo, invero, di senili piagnistei o di perfide riflessioni palesamente dettate da una profonda acredine che ben comprendo, visto che Le ho rinfacciato di essere ignorante in campo di sintassi latina e di altre cose. È quindi normale (nel Suo mondo psichico) prendersi qualche soddisfazione. Perché no? Un qualsiasi psicanalista glielo suggerirebbe, considerato che Lei non fa altro che dar continua prova di essere sull’orlo di una crisi di nervi. Ma procediamo con ordine.
1) “Servus Dei”: mi sono limitato a citare manoscritti contenenti tale espressione in quanto solo essa vien riportata nel Plut. 67.22 (1r). So molto bene, comunque, che altrove Cassiodoro è spesso definito “beatus”, “sanctus” ecc.;
2) quanto a “conversus”, mi sono già soffermato su tale termine sia nella relazione da me tenuta al convegno di studi su Cassiodoro del 2012 e, dietro Sua richiesta, inviatale per posta elettronica, pur senza essere da Lei ringraziato (“Sulle cause delle fondazioni monastiche di Cassiodoro e sull’opera da lui svolta in quella di Vivarium”), sia in un mio articolo pubblicato in “Rogerius” 15, 1 (2012) ed intitolato “Precisazioni su Cassiodoro”;
3) la Sua sottile distinzione tra i “fini religiosi” cassiodorei prima, quelli culturali poi, è senza dubbio ridanciana. Stando, dunque, alle Sue affermazioni, non solo io, ma anche rinomati studiosi di letteratura latina (Eduard Norden, Giovanni Polara, Luigi Alfonsi, Antonio Salvatore e via dicendo) saremmo “portatori” di “pseudocultura”. Beata Lei, allora, che fortunatamente, però, insegna inglese (così mi dicono) ed è ferrata in materia di pesci. Certo, è innegabile che alla base della fondazione del monastero Vivariense ci fosse il sentimento religioso, ma che Cassiodoro si prefiggesse anche e soprattutto uno scopo culturale è lui stesso a confermarlo, rivolgendosi ai propri monaci, nella “praefatio” delle sue “Institutiones”: “Poiché mi rendevo conto che un grande desiderio di studiare le lettere profane si era impossessato di molte persone al punto tale che esso veniva ritenuto il mezzo necessario per raggiungere la saggezza di questo mondo, io fui, lo confesso, oltremodo addolorato nel constatare che non esistevano maestri pubblici che insegnassero le Scritture divine, laddove gli autori profani facevano certamente sfoggio di una rinomatissima tradizione. Assieme al santo papa Agapito, vescovo di Roma, sull’esempio di quanto si tramanda che sia stato fatto tempo addietro ad Alessandria…, mi sono sforzato, dopo aver raccolto i fondi necessari, a fare in modo che la scuola cristiana accogliesse maestri che professassero a Roma, consentendo così all’anima dei credenti il raggiungimento della salvezza eterna e conferendo alla loro lingua l’ornamento di un eloquio corretto e puro. Ma quando a causa dell’eccessivo dilagare delle guerre e dei combattimenti nel regno d’Italia il mio desiderio non ha potuto in nessun modo trovare compimento…, riconosco di essere stato spinto dalla divina carità a scrivere per voi, al posto di un maestro, con l’aiuto di Dio, questi libri introduttivi. Grazie a questi, come credo, si renderanno chiare, sempre con l’aiuto di Dio, la serie delle Scritture divine e la breve conoscenza delle lettere profane… Ad essi consegno non la mia cultura, ma le parole degli antichi che è giusto ricordare ed è glorioso predicare ai posteri…” (trad. di M. Donnini, Roma 2001, pp. 47-48);
4) nel mio studio sulla miniatura di Cassiodoro trasmessa dal ms. Plut. 67.22 ho menzionato il dr. Leone perché, relazionando lui in un convegno dal tema “Cassiodoro: vir religiosus, beatus, sanctus” su immagini cassiodoree che attestassero la fama di santità del Nostro e contenendo quella miniatura l’espressione “servus Dei” (che appunto si adatta a tal fine), sarebbe stato interessante, a mio avviso, che egli ne fosse a conoscenza. E difatti, non ha perso tempo a chiedermi una foto. Che poi l’autore della miniatura, Matteo da Milano, raffigurasse Cassiodoro in Giuliano dei Medici, facendo così mangiare, come Lei dice, “cavoli a merenda”, chieda a Dio il permesso di andare in cielo al fine di poter parlare direttamente con quell’artista e rimproverarlo di aver offerto al lettore un piatto di ortaggi. Anche sul piano artistico, comunque, Lei ha dimostrato di non capire un’acca;
5) ho forse commesso qualche errore nel chiamare il dr. Leone solo “critico d’arte”? Per quale motivo avrei dovuto specificare che egli è “direttore della Galleria Corsini a Roma per la Soprintendenza ai Beni culturali”? Me lo spieghi Lei.
Concludo. Nell’essere sempre in attesa che Lei mi faccia un chiarissimo esempio di attrazione modale in base alle regole illustrate dal nostro amato Tantucci, Le consiglio di starsene calma, di smettere di sparare corbellerie e, magari, di recitarsi un rosario. Solo in tal modo eviterà ulteriori figuracce e forse non sarà più acida.
Prof. Lorenzo Viscido
Illustrissimo professor Viscido,
da un mese circa a questa parte Lei insiste per avere “un chiarissimo esempio di attrazione modale in base alle regole illustrate dal nostro amato Tantucci”. E vabbe’, eccoLa accontentata; rimando a ulteriori interventi altre considerazioni sul di Lei commento, non perche’ voglia rinchiudermi in totale silenzio, ma semplicemente perche’ ho altro da fare. Ma prima, una premessa: lungi da me il dubitare della di Lei cristallina trasparenza, abbagliante candore e specchiata sincerita’; absit, quindi, il minimo dubbio che Ella mi abbia inviato la Sua relazione presentata al convegno su Cassiodoro vir religiosus; ma, in fede mia, io non l’ho mai ricevuta, e favorisca quindi inviarmela: dcsaki@yahoo.com, e voglia accogliere fin d’ora i miei piu’ profusi ringraziamenti.
TANTUCCI E L’ATTRAZIONE MODALE, OVVERO: Latin is a language/As dead as it can be/It killed all the Romans/And now it’s killing me.
AMOREVOLMENTE DEDICATO AGLI STUDENTI SQUILLACESI E NON, IN PARTICOLARE A QUELLI CHE ODIANO IL LATINO
“Attrazione modale” puo’ essere termine infelice, ma e’ invalso nell’uso e lo usa anche il Tantucci, pur premettendovi talora un “cosiddetta”; quindi lo uso anch’io. Cio’ che conta sono I CONCETTI che ne determinano l’uso o meno; concetti che sottendono alle regole da Lei cosi’ puntigliosamente enunciate, e sui quali Tantucci si sofferma a lungo, perche’ senza di essi le regole non avrebbero senso; ma Lei, professore, non ne dice motto, liquidando il tutto con “seguono alcuni esempi.”
(E’ malauguratamente e sciaguratamente vero che l’attrazione modale “viene spiegata a scuola” (parole Sue) come da Lei indicato, cioe’ ripetendo pedissequamente una serie di regole riprese da qualche testo; senza far capire agli studenti LE IDEE che animano quelle regole e senza dir loro che l’attrazione modale non e’ un affastellarsi di definizioni che non spiegano nulla, ma uno strumento di cui gli scrittori latini si servivano per palesare o velare i propri sentimenti; strumento di cui – poiche’ le idee sono le stesse per tutte le lingue – anche gli studenti potrebbero servirsi. Ma si sa che molte scuole ammazzano i classici).
I CONCETTI spiegati dal Tantucci, base per le sue regole sull’attrazione modale, sono due. Il primo e’ nella “Nota” al comma 188, in cui Tantucci da’ la “spiegazione razionale” dell’attrazione modale: il congiuntivo c’e’ (a) perche’ l’autore non esprime il suo proprio pensiero, ma quello di qualcun altro, o (b) perche’ i fatti di cui l’autore parla non sono reali, ma supposti.
Il secondo concetto e’ enunciato con somma semplicita’ al comma 188, quando Tantucci precisa che l’attrazione modale e’ “assimilazione di modi”, riconducendo cosi’ tutta l’impalcatura di congiuntivi, proposizioni secondarie di primo grado, secondo grado, e chi piu’ ne ha piu’ ne metta, alla legge generale dell’assimilazione, valida in moltisime lingue e valida nella vita, cioe’: chi va col lupo impara ad ululare (Manzoni) o: chi si piglia s’assomiglia. Cioe’, se vi sono fra due persone stretti legami d’affetto, amicizia od altro, esse si influenzano a vicenda; o, se una e’ piu’ forte, una influenza l’altra. Nella lingua latina due frasi CONCETTUALMENTE e strettamente collegate, al punto che una delle due non avrebbe senso senza l’altra, si influenzano, ed il congiuntivo (se c’e’) di quella “psicologicamente dominante” – definizione di un latinista di cui non ricordo il nome – influenza l’altra frase, che percio’ usa pure il congiuntivo. Questi sono i CONCETTI alla base delle regole, e se non si capiscono questi, inutile ripetere quelle.
L’assimilazione linguistica e’ un fenomeno vasto. Tantucci enuncia con la sua consueta acribia le regole, da Lei citate, secondo cui deve verificarsi nel latino classico l’attrazione modale. Ma dove sta scritto che essa avvenga solo nei casi enunciati del Tantucci? n realta’ essa avviene, a discrezione dello scrittore, ogni qualvolta, in due proposizioni strettamente collegate, una influenza l’altra. Ma Lei vuole un esempio. Eccolo, dal Tantucci, Sintassi latina, comma 206 (Proposizioni causali), Osservazione 2. E’ un esempio che ha fatto scuola, poiche’ lo usa anche il Traina: “I pugili nell’agitare i cesti gemono, non perche’ provino dolore, ma perche’ nell’emettere la voce tutto il corpo si tende” – e Tantucci precisa (Nota) che la seconda proposizione puo’ essere anche una finale introdotta da “ut”.
L’esempio del Tantucci e’ estremamente vicino alla frase di Cassiodoro in Var. XII.XV su Squillace, sospesa “non perche’ si gonfi d’orgoglio, ma per vedere [=affinche’ veda] i campi ed il mare”. Il pensiero e’ la splendida vista sul mare e sui campi, e tale pensiero domina su quello povero, miserabile, striminzito, del gonfiarsi d’orgoglio, che se ne lascia influenzare e prende anch’esso il congiuntivo. Utinam…
Le rispondero` nei prossimi giorni in quanto adesso ho altro da fare.
Prof. Lorenzo Viscido
Sbaglio o in una Sua risposta di fine marzo mi aveva detto che “battibeccar(si)” con me non era una delle Sue “priorità esistenziali”, ragion per cui quella risposta sarebbe stata il Suo “ultimo intervento”? Ha cambiato idea? Senza dubbio sì, visto che le mie continue sfide La irritano a tal punto che da brava eroina ha deciso di non arrendersi con la speranza di poter trionfare.
Ho tuttavia notato che, anche quando non La sfido, ha lo stesso voglia di “battibeccare” perché il bruciore che sente in qualche ferita da me prodottaLe è così forte da spingerLa a reagire ogniqualvolta ne ha l’occasione.
Fatta questa premessa, mi congratulo per la Sua audacia, ma debbo dirLe che i Suoi rilievi del 26 aprile, esposti per dimostrare l’uso dell’”attrazione modale” in certi passi, non sono purtroppo encomiabili. Nel rispondere a Lei, comunque, mi tocca ripeterLe (“repetita iuvant”) che la cosiddetta “attrazione modale”, come spiegata da Vittorio Tantucci (Urbis et orbis lingua, rist., Bologna 1979, p. 390) e da altri, si verifica quando “una proposizione, che per sua natura dovrebbe avere l’indicativo…, qualora dipenda da un’altra al congiuntivo o all’infinito, assum(e) anch’essa, per una specie di attrazione, il modo congiuntivo, purché faccia parte integrante della proposizione che la regge”. In ciò consiste, dunque, l’“attrazione modale”, che lo studioso appena citato definisce pure, tra parentesi, “assimilazione di modi”.
Nei miei commenti del 24 e 31 marzo, però, commenti in cui, oltre al Tantucci, menzionavo anche Charles Bennett, Alfred Ernout, François Thomas e Wilhelm Kroll, Le segnalavo che l’espressione “attrazione modale” non è esatta, “in quanto rispecchia un fenomeno puramente meccanico” (sono parole del Tantucci [cit., p. 391], il quale aggiunge [come Lei ha bene sottolineato] che “la spiegazione razionale” di questo costrutto “va ricercata nel fatto che si tratta, nel maggior numero dei casi, di congiuntivi obliqui…” [dello stesso avviso, per nominare alcuni eccellenti latinisti, Alfredo Ghiselli, De attractione modali latina, in “Latinitas” 3, 1955, p. 305, e Alessandro Ronconi, La sintassi latina, Firenze 1959, p. 256] “oppure di congiuntivi denotanti eventualità o possibilità”). E allora, in relazione a quel che ho letto nel Suo commento del 2 marzo, ovvero che “turgescat” in Cassiod., “Var.” XII, 15, 1 (“Civitas… in modum botryonis pendet in collibus, non quod difficili ascensione turgescat, sed ut campos virentes et caerula maris terga respiciat”) è “un semplice caso di attrazione modale”, cioè un congiuntivo “attratto” o, come da Lei ritenuto il 26 del mese scorso, un congiuntivo creatosi per “influenza” di quello adoperato in una proposizione “psicologicamente dominante”, sono felice di seguire “pedissequamente una serie di regole riprese” da testi non di poca importanza, ma di indubbio valore, tra cui (dico “tra cui”) la sintassi latina del Tantucci, diffusa in centinaia di migliaia di copie e adottata in molte scuole italiane, nonché apprezzata per chiarezza espositiva. Ciò per ribadire che è sbagliato, dal mio punto di vista, quanto da Lei asserito. E difatti, cercherò di farLe meglio comprendere più in là che “turgescat” non è dovuto né ad “attrazione” né ad “influenza”. Esso, invero, è uno dei tanti congiuntivi di quelle proposizioni causali introdotte da “non quod”, proposizioni che pienamente rientrano nell’”oratio obliqua” (= discorso indiretto) e che per principio escludono la fondatezza di una causa. Di qui lo stilema “non quod” (“non quo”, “non quia”) + congiuntivo, “sed quia” (“sed quod”) + indicativo o “sed ut” (finale), che già di per sé rivela il motivo che l’autore ritiene falso e quello che invece considera vero.
Costruito secondo tale stilema (senza l’impiego della finale, però, ma con doppia causale) è pure il passo da Lei riportato nei Suoi rilievi del 26 aprile come esempio di “attrazione modale”, passo in merito a cui si è compiaciuta di ricordarmi che esso si trova nell’opera del Tantucci (“proposizioni causali”) e che “ha fatto scuola”, avendolo usato “anche il Traina”. E in effetti – ma già prima di loro Johan Nikolai Madvig (Grammatica della lingua latina, II, Milano 1869, p. 310),William Elisha Peters (Syntax of the Latin Verb, University of Virginia 1898, p. 439) e, per non dilungarmi, Robert Ogilvie (Horae Latinae. Studies in Synonimous and Syntax, London 1901, p. 37) –, sia il Tantucci (cit., pp. 412-413) sia il latinista palermitano (in base a quel che leggo nella Sintassi normativa della lingua latina, da lui curata insieme a Tullio Bertotti [rist., Bologna 1993, p. 425, par. 374]) lo riportano riferendosi, appunto, alle proposizioni causali da me poco fa ricordate.
Eccone il testo latino (testo da Lei omesso): “… pugiles…, etiam cum feriunt adversarium, in iactandis caestibus ingemiscunt, non quod doleant…, sed quia profundenda voce omne corpus intenditur…” (Cic., “Tusc.” II, 56).
Gliel’ho trascritto perché Lei, in aggiunta, ha fatto notare quanto segue: “Tantucci precisa che la seconda proposizione” (“sed quia profundenda voce omne corpus intenditur”) “può essere anche una finale introdotta da ‘ut’”. Certo, invece di una causale, Cicerone avrebbe potuto impiegare una finale. Reputo rispettabile, dunque, il parere del nostro studioso. Ma, ancor prima di farLe capire che il Suo esempio di “attrazione modale” è solo una bufala, debbo esortarLa a considerare che l’Arpinate non ha scritto “sed ut… omne corpus intendatur” (che avrebbe pure espresso il vero motivo per cui i “pugiles… ingemiscunt”), bensì “sed quia… omne corpus intenditur”, proposizione causale, questa, con l’indicativo. Giustamente il Tantucci, sempre a proposito di Cic., “Tusc.” II, 56, ha osservato che, mentre “con la prima causale (= “non quod” + congiuntivo) si introduce una causa non reale, ma supposta, con la seconda (= “sed quia” + indicativo) si esprime il motivo vero… dell’azione della principale” (pp. 412-413). Qualora, quindi, volessi ammettere con Lei che “doleant” è un caso di “attrazione modale”, mi sarebbe impossibile comprendere come essa abbia avuto luogo: perché, a Suo avviso, la subordinata successiva “sed quia… omne corpus intenditur”, “può essere anche una finale introdotta da ‘ut’”, finale da cui dipenderebbe la causale precedente, che perciò conterrebbe un verbo al congiuntivo (“doleant”) ? Ha forse voglia di far ridere persino i polli? Ma mi faccia il piacere!
Rimarco, inoltre, che, non essendoci alcun congiuntivo in “quia… intenditur” del passo ciceroniano, il paragone con Cassiod., “Var.” XII, 15, 1, contrariamente a ciò che Lei scrive, non regge. E considerato che avrebbe preferito riportare un brano identico (circa la sintassi del periodo) a quello cassiodoreo (con il congiuntivo nella proposizione causale a cui segue una finale), in tal caso Le sarebbe stato utile, ad es., Cic., “Caecin.” 101: “… id feci, non quod vos in hac causa hanc defensionem desiderare arbitrarer, sed ut omnes intellegerent nec ademptam cuiquam civitatem esse neque adimi posse” (passo usato come esempio di causale negativa col congiuntivo da Charles Bennett, New Latin Grammar, rist., Boston – New York – Chicago 1918, p. 186, Adolfo Gandiglio, Corso di lingua latina. V. Sintassi latina, III, rist. a cura di G.B. Pighi, Bologna 1962, p. 207, e da altri).
Anche in questo caso, nella causale si rende necessario il congiuntivo (“arbitrarer”) perché viene “esclus(a)” una “causa”, a sua volta “contrapposta” a quella vera, contenuta nella finale (A. Gandiglio, cit., p. 201), una “causa” che l’autore non può spiegare con l’indicativo giacché esso conferma un’azione fondata sulla realtà. Si giustifica così il congiuntivo “arbitrarer”, non per effetto, quindi, del modo della finale (“intellegerent”), che, come la causale precedente, dipende anch’essa dalla principale (“id feci”). È ovvio, dunque, che non c’è alcuna “attrazione modale”.
Lei tuttavia dichiara che quest’ultima “avviene, a discrezione dello scrittore, ogni qualvolta, in due proposizioni strettamente collegate, una influenza l’altra”. Anzi puntualizza: “Nella lingua latina due frasi concettualmente e strettamente collegate, al punto che una delle due non avrebbe senso senza l’altra, si influenzano, ed il congiuntivo (se c’è) di quella ‘psicologicamente dominante’… influenza l’altra frase, che perciò usa pure il congiuntivo”. Il che, all’insegna della coerenza, dovrebbe valere anche se, al posto del congiuntivo nella proposizione ‘psicologicamente dominante’ (espressione, questa – Lei afferma – , “di un latinista di cui non ricorda il nome”) ci fosse un indicativo di tal genere.
Ebbene, che l’“attrazione modale” possa verificarsi, come Lei asserisce, “a discrezione dello scrittore” non lo metto in dubbio, poiché la scelta di ricorrere a tale costrutto, considerato però nella sua “spiegazione razionale” (uso di “congiuntivi obliqui oppure… denotanti eventualità o possibilità” [V. Tantucci, cit., p. 391]), è soggettiva. Se è vero, quindi, che “si è liberi di scegliere tra congiuntivo e indicativo, adeguando ai diversi contesti la diversa espressività dei due modi” (A. Traina – T. Bertotti, cit., p. 344, par. 318), è altresì vero, tuttavia, che costituisce un “errore non usare il congiuntivo” obliquo o dell’eventualità se esso è richiesto (V. Tantucci, cit., p. 391. Cfr. pure A. Traina – T. Bertotti, cit., p. 344, par. 318). Anche Lei, d’altronde, nel ribadire alcuni “concetti spiegati dal Tantucci”, ha confermato che si adopera “il congiuntivo… perché l’autore non esprime il suo proprio pensiero… o… perché i fatti di cui l’autore parla non sono reali…”.
Alle Sue parole aggiungo che per contro c’è l’indicativo quando una cosa viene presentata come obiettiva o si esprime un pensiero diretto (ma non sempre è così). Concordo, dunque, su quel che Lei ha voluto precisare. Il Suo rilievo, però, ossia che due proposizioni “strettamente collegate, al punto che una delle due non avrebbe senso senza l’altra, si influenz(i)no, ed il congiuntivo (se c’è) di quella ‘psicologicamente dominante’… influenz(i) l’altra frase, che perciò usa pure il congiuntivo”, mi induce a fare delle osservazioni.
Innanzitutto non condivido il Suo giudizio concernente Cassiod., “Var.” XII, 15, 1 (“Civitas… in modum botryonis pendet in collibus, non quod difficili ascensione turgescat, sed ut campos virentes et caerula maris terga respiciat”): “Il pensiero è la splendida vista sul mare e sui campi, e tale pensiero domina su quello povero, miserabile, striminzito, del gonfiarsi d’orgoglio, che se ne lascia influenzare e prende anch’esso il congiuntivo”.
Riguardo a quanto da Lei rilevato, debbo farLe notare che in questo passo, tra la causale “non quod … turgescat” e la finale “sed ut… respiciat” non è avvenuta alcuna “influenza” tale da fare assumere al verbo “turgesco” il modo congiuntivo, modo che, invece, va spiegato diversamente. Andiamo infatti nei dettagli:
1) è molto chiaro, anche per un principiante di latino, che la causale “non quod… turgescat” non è subordinata alla finale, bensì, come questa, alla principale (“Civitas… pendet”). Dato, pertanto, che in Cassiod., “Var.” XII, 15, 1 Lei ha inizialmente visto “un semplice caso di attrazione modale” (che tuttavia non c’è) – “caso” che ora chiama di “influenza” da parte della proposizione “psicologicamente dominante” –, ancora una volta Le ripeto che, a prescindere dalla sua plausibile “spiegazione razionale”, l’”attractio modorum” (così pure detta) avviene se “una proposizione” che “dipend(e) da un’altra al congiuntivo o all’infinito, assum(e)…, per una specie di attrazione, il modo congiuntivo” (V. Tantucci, cit., p. 390).
Come ho già puntualizzato, la causale “non quod… turgescat” non “dipende” dalla finale “sed ut… respiciat”, ma dalla principale. Va escluso, quindi, che “turgescat” abbia assunto il congiuntivo per “attrazione” esercitata dal modo della finale. Tenuto conto di ciò, ironicamente tempo fa Le chiedevo se, per Lei, l’impiego di “turgescat” era stato motivato dall’uso di qualche congiuntivo nella proposizione principale, dove, però, c’è solo un verbo all’indicativo (“pendet”);
2) che in “non quod… turgescat” vi sia il congiuntivo, non è perché “il pensiero” contenuto nella finale abbia “domina(to)” su quello della proposizione che precede, ma in quanto, tramite questo modo impiegato in un caso di “oratio obliqua”, l’autore ha inteso esprimere un’opinione consistente nel non ritenere credibile il motivo esposto nella causale (cfr. B.H. Skahill, The Syntax of the Variae of Cassiodorus, Washington, D.C., 1934, p. 214). Tutto qui (è, questa, un’interpretazione su cui, relativamente ad altri casi analoghi a Cassiod., “Var.” XII, 15, 1, sono pienamente concordi insigni Maestri, fra i quali – ne menziono solo alcuni – William Elisha Peters [cit., p. 441], Charles Bennett [cit., p. 186], Adolfo Gandiglio [cit., p. 207], Alfred Ernout e François Thomas [Syntaxe Latine, rist., Paris 1972, p. 348], Alfonso Traina e Tullio Bertotti [cit., pp. 425, par. 374, e 426, nota 2]). Come si spiegherebbe, infatti, il congiuntivo in una causale a cui non segue una proposizione col medesimo modo? Insomma, se Le cito il passo ciceroniano del quale ho discusso in precedenza (“Tusc.” II, 56: “… pugiles…, etiam cum feriunt adversarium, in iactandis caestibus ingemiscunt, non quod doleant…, sed quia profundenda voce omne corpus intenditur…”); se Le cito, inoltre, Cic., “De or.” II, 75 (“In quo ego, non quo libenter male audiam, sed quia causam non libenter relinquo, nimium patiens et lentus existimor”) o Cassiod., “Var.” VI, 11, 1 (“Nam sicut caelum stellis redditur clarum, sic relucent urbes lumine dignitatum: non quia fiat homo alter honoribus, sed quia modestior efficitur…”), perché, secondo Lei, in “non quod doleant”, “non quo… audiam” e “non quia fiat” c’è il congiuntivo? Forse che queste causali sarebbero state “influenzate” da quelle successive? E dove sarebbe il congiuntivo in “sed quia… intenditur”, “sed quia… relinquo” e “sed quia… efficitur”? Vi si trova invece l’indicativo (“intenditur”, “relinquo”, “efficitur”). In realtà, nemmeno per questi passi si può parlare di “influenza” di una delle due subordinate sull’altra, ma di congiuntivi impiegati per negare una causa (cfr. per il primo passo, ad es., A. Sloman, A Grammar of Classical Latin, Cambridge 1906, p. 356; V. Tantucci, cit., pp. 412-413; A. Traina – T. Bertotti, cit., pp. 425, par. 374, e 426, nota 2; per il secondo W. E. Peters, cit., p. 441; R. Ogilvie, cit., p. 37; per il terzo B. H. Skahill, cit., p. 215).
Certo, per salvare capre e cavoli, Lei potrebbe dirmi che le proposizioni causali “sed quia… intenditur”, “sed quia… relinquo” e “sed quia… efficitur” non hanno il congiuntivo e che, pertanto, la Sua argomentazione vale solo se in una “frase” che “psicologicamente” domina su un’altra vien fatto uso di questo modo. Così dicendo, però, mi darebbe prova di non essere coerente con le Sue idee. La Sua argomentazione, in effetti, deve anche valere se nella “frase” “psicologicamente dominante” c’è l’indicativo. Ma, a parte ciò, Le cito, ad es., Tac., “Ann.” XV, 60 (“Sequitur caedes Annaei Senecae, laetissima principi, non quia coniurationis manifestum compererat, sed ut ferro grassaretur, quando venenum non processerat”) e Curt. V, 8 (“Proditores et transfugae in urbibus regnant, non, hercule, quia tanto honore digni habentur, sed ut praemiis eorum vestri sollicitentur animi”).
Stando al Suo ragionamento, nelle causali “non quia… compererat” e “non… quia… habentur” non ci dovrebbe essere l’indicativo, bensì il congiuntivo per “influenza” delle finali “sed ut… grassaretur” e “sed ut… sollicitentur”. Perché mai, invece, le causali hanno l’indicativo? Io lo so, ma desidero che me lo dica Lei. Se tuttavia mi risponderà in maniera giusta, certamente mi darà ragione, ma al tempo stesso si contraddirà con quanto da Lei affermato prima: “due frasi concettualmente e strettamente collegate, al punto che una delle due non avrebbe senso senza l’altra, si influenzano, ed il congiuntivo (se c’è) di quella ‘psicologicamente dominante’… influenza l’altra frase, che perciò usa pure il congiuntivo”.
A tale riguardo, comunque, Le chiedo di farmi chiaramente sapere se, mancando il congiuntivo ed essendoci invece l’indicativo nella “frase” il cui pensiero “domina” su quello racchiuso nell’altra, vale lo stesso questa Sua operazione mentale. In caso positivo sarebbe necessario che mi spiegasse come mai nelle proposizioni causali “non quod doleant” (Cic., “Tusc.” II, 56), “non quo… audiam” (Id., “De or.” II, 75) e “non quia fiat” (Cassiod., “Var.” VI, 11, 1) non ci sia il modo indicativo delle causali successive “sed quia… intenditur”, “sed quia… relinquo” e “sed quia… efficitur”. In caso negativo, mi confermerebbe di essere incoerente con le Sue idee.
Ritornando a Cassiod., “Var.” XII, 15, 1 (“Civitas… in modum botryonis pendet in collibus, non quod difficili ascensione turgescat, sed ut campos virentes et caerula maris terga respiciat”), nella cui proposizione causale (“non quod… turgescat”) Lei riconosce un caso di “attrazione modale”, Le ho già spiegato che questa proposizione non è subordinata alla finale (“sed ut… respiciat”) e che “turgescat” è un congiuntivo che l’autore ha ritenuto giusto impiegare, nello stilema sopra discusso (“non quod”… “sed ut”), non considerando vero il motivo espresso nella prima delle due proposizioni dipendenti tutte e due dalla principale (se ne ha pure conferma nella “Syntax” di Bernard Henry Skahill [cit., p. 214]). Mi auguro, allora, possa capire (ma m’illudo) che fra ambedue le subordinate in Cassiod., “Var.” XII, 15, 1 non c’è stata alcuna ‘forza di magnetismo’.
Quanto al fatto, infine, che, avendo Vittorio Tantucci utilizzato l’espressione “attrazione modale”, può usarla anche Lei, non v’è dubbio che nessuno glielo impedisce. Considerare però un caso di “attractio modorum” quello che in realtà non è significa ignorare gli insegnamenti dello studioso di Marsciano e di altri Maestri. Non sia mai, pertanto, che gli studenti squillacesi, ai quali Lei ha dedicato le Sue riflessioni del 26 aprile, imparino il latino in base ai Suoi precetti! Rabbrividirei nell’ascoltarLa mentre spiega loro, ad es., l’uso del “cursus” nelle “Variae” nel modo in cui ne ha discusso nelle Sue note del 17 febbraio, da me commentate il 26 dello stesso mese. Poveri studenti! No, no, se ne stia alla larga! Piuttosto, quando ha del tempo libero, vada a Copanello, si sieda su uno scoglio e parli di latino con i pesci a Lei carissimi: lì, in cavità dove da ragazzo un mio amico si dilettava a pescare, ci sono bavose in abbondanza. E se Le capita di discutere con queste di attrazione o assimilazione dei modi, specifichi il riferimento ai verbi perché tra di voi potrebbe verificarsi un’assimilazione di altri modi. È stata infatti proprio Lei a dire che l’assimilazione è anche “valida nella vita, cioè: chi va col lupo impara ad ululare… o: chi si piglia s’assomiglia”. Ha poi precisato che “se vi sono fra due persone stretti legami d’affetto…, esse si influenzano a vicenda”. Il che avviene anche tra persone ed animali (gatti, cani, cavalli o pesci). Le bavose, dunque, potrebbero influenzarLa con certe loro abitudini oppure potrebbero subire l’influenza di qualche Suo atteggiamento.
Sa, di Lei ho compreso benissimo una cosa: pur essendo consapevole di aver torto, prova sempre ad aggirare gli ostacoli in quanto non vuole pubblicamente riconoscere i propri errori. Ciò, mi creda, non Le rende onore! Glielo dico con quella “cristallina trasparenza”, con quell’“abbagliante candore” e con quella “specchiata sincerità” che Lei ha riconosciuto in me. Ecco, in tutto questo non si è affatto sbagliata. Menomale che ogni tanto dice cose vere!
Prof. Lorenzo Viscido
Esimio professor Viscido,
per quanto riguarda Var. 12.15 di Cassiodoro e la sintassi latina, quel che avevo da dire l’ho gia’ detto; cerchi di leggerlo, faccia uno sforzo ed almeno provi a capirlo; poiche’, a giudicare dalle Sue tanto fluviali quanto sconclusionate esternazioni, Lei sembra essere posseduto da ignoranza invincibile (nel caso Lei non capisca) od invincibile ostinazione (nel caso Lei non voglia capire). In questi casi, conviene lasciar cuocere l’interessato, cioe’ Lei, nel suo brodo, che tanto il mondo va avanti lo stesso.
Invece, non per Lei ma per quelli che si interessano a tali cose (e dovrebbero essere tutti gli squillacesi, perche’ Cassiodoro dovrebbe essere una carta da giocare anche sul piano culturale-turistico, oltre che su quello propriamente spirituale) due altri punti da Lei fugacemente toccati, di cui il primo e’ il “sentimento religioso” di Cassiodoro, che secondo Lei “e’ innegabile” “alla base della fondazione del monastero Vivariense”. Questo primo punto merita un discorso a parte, che rimando ad altra occasione; per ora mi limito a dire che il “sentimento religioso” e’ un’altra delle anticaglie ereditate dal Romanticismo prima e dal modernismo, specie del primo Novecento, poi, che si sono fatte passare come surrogati per la Fede. Quella di Cassiodoro era Fede, non “sentimento religioso”, di cui allora, ai tempi di Cassiodoro, non si parlava; e la fede e’ tutt’altra cosa. Ma di questo parleremo un’altra volta.
Il secondo punto e’ la Sua invero peregrina affermazione: “che Cassiodoro si prefiggesse anche e soprattutto uno scopo culturale e’ lui stesso a confermarlo.” In realta’, quale fosse lo scopo di Cassiodoro e’ stato chiarito, ben piu’ autorevolmente di quanto potrei fare io, da Monsignor Bertolone in occasione dell’inaugurazione del convento di Suore carmelitane a Squillace il 14 maggio 2014: “Il monastero Vivarium riaccende a Squillace la luce dell’alta cultura e della spiritualita’ irradiata fin dai tempi di Cassiodoro”; ed anche dal professor Rhodio: “La nuova comunita’: un innesto che riconduce al “Vivarium” e al “Montecastello” di Cassiodoro.” Non c’e’ quindi bisogno che parli io qui degli scopi che si prefiggeva Cassiodoro; tuttavia ne ho parlato o ne parlo, solo per poche pagine, nel saggio che sto ultimando a proposito delle testimonianze patristiche su Maria Corredentrice e Mediatrice; e piu’ diffusamente nell’introduzione all’edizione critica delle ‘Complexiones in Apocalypsi’ che e’ ora in preparazione. Entrambi i libri dovrebbero uscire entro il 2015, e rimando a quelli.
[continua]
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Ma vediamo cosa dice Cassiodoro a proposito dello scopo che si prefiggeva con la fondazione di Vivarium. Mi limito all’introduzione alle Institutiones (libro 1)(purtroppo citata dal professor Viscido solo nella bolsa e mediocre traduzione di Mauro Donnino, da cui Cassiodoro esce vagamente evirato), perche’ essa basta a dimostrare – con parole di Cassiodoro, non mie – che solo chi ha le traveggole puo’ vedere in Vivarium uno scopo SOPRATTUTTO culturale.
Scrive dunque Cassiodoro che egli, assieme a papa Agapeto (quindi piu’ di 30 anni prima, poiche’ Agapeto mori’ nel 536), avrebbe voluto fondare a Roma una scuola cristiana SIA perche’ le anime ricevessero la salvezza eterna, SIA perche’ il linguaggio dei fedeli si ornasse di dizione irreprensibile e purissima [et animae susciperent aeternam salutem et casto atque purissimo eloquio fidelium lingua comeretur]. Due scopi dichiarati, dunque, tra loro in equilibrio, ma il primo dei due e’ la salvezza eterna.
Una postilla: la “dizione irreprensibile” non si riferisce solo alla forma letteraria, ma alla precisione concettuale. Un esempio, tratto dal codice di Agimondo (Vat.lat. 3836) di cui mi sono occupata a proposito del saggio su Maria nella patristica: la traduzione dell’omelia 1 di Proclo fatta da Dionigi il Piccolo, maestro di Cassiodoro, parla di ‘unitio’ (unione) delle due nature, quella umana e quella divina, in Cristo. Cio’ e’ teologicamente ineccepibile; altre traduzioni hanno invece ‘unitas’ (unita’) delle due nature, che pero’ sono due e non una, e lo affermo’ dogmaticamente il concilio di Calcedonia. E’ questo il linguaggio preciso cui mira Cassiodoro, e di cui, dice lui, c’era molto bisogno a Roma; e la storia gli ha dato ragione, perche’ espressioni confuse a proposito delle due nature di Cristo di ritrovano, pur con le migliori intenzioni, persino in testi di papa Gregorio Magno.
Tornando alle Institutiones, una domandina semplice semplice: si e’ mai chiesto, professor Viscido colendissimo, perche’ il libro 1 e’ dedicato alla Scrittura divina, ed il libro 2 alla letteratura profana? non potrebbe trattarsi di una gerarchia di valori? le edizioni a Vivario non venivano fatte a caso.
La stessa gerarchia di valori si mantiene nella prefazione al libro 1, da Lei citata: “…per mezzo dei quali [libri], come penso, SIA la serie delle Scritture sacre CHE quella delle letteratura profana si aprisse, ecc.” [propter quos, sicut aestimo, ET scripturarum divinarum series ET saecularium litterarum compendiosa notitia Domini munere panderetur].
Ed ancora, la stessa gerarchia di valori: v’e’ grande utilita’, scrive Cassiodoro, quando per mezzo dei libri si apprende “da dove chiaramente provengono SIA la salvezza dell’anima CHE l’erudizione profana” [unde ET salus animae ET saecularis eruditio provenire monstratur].
Nelle Institutiones, continua Cassiodoro, i lettori troveranno non gli insegnamenti suoi propri, ma quelli degli antichi. E peccato, esimio professor Viscido, veramente peccato che la Sua citazione si fermi qui. Perche’ se Lei si fosse spinto qualche riga piu’ avanti, avrebbe dovuto dirci che “gli antichi” sono gli scrittori recensiti nel libro 1 delle Institutiones, cioe’ i Padri della Chiesa, e non quelli dell’antichita’ pagana, come la Sua citazione monca potrebbe far supporre; ma, evidentemente, si fa quel che si puo’.
Luciana Cuppo
Si comprende benissimo che il bruciore di qualche Sua ferita è ancora forte. Le consiglio una crema rinfrescante. Per il resto, mi convinco sempre di più che dimostrarLe la validità di certe cose è come lavare la testa a un asino: si spreca tempo, acqua e sapone.
Prof. Lorenzo Viscido
AGGIUNTA
Come già Le ho precisato, è inutile farLe capire certe cose. Le Sue parole in struttura chiastica, quindi (“ignoranza invincibile… od invincibile ostinazione”), si addicono benissimo a Lei.
Ho di nuovo constatato, però, che non sempre il Suo livello di comprendonio è basso: a volte riesce a comprendere molto bene; solo che per salvare la faccia, non perde tempo a trovare una scappatoia. Esempio: in base al Suo giudizio, i miei rilievi sull’attrazione modale sono “esternazioni sconclusionate” (il che non risponde al vero). Siccome ho chiaramente dimostrato che Lei è ignorante per quel che riguarda alcuni aspetti della lingua latina, di conseguenza ha deciso di esprimersi nel modo in cui si è espressa. Non aveva altra scelta.
E allora – mi ascolti –, ogni sera, prima di andare a letto, preghi Dio affinché negli anni di vita che Le rimangono possa renderLa umile e, soprattutto, meno acida.
Prof. Lorenzo Viscido