Settantenne, conclusa una brillante carriera tra Ravenna e Costantinopoli, Cassiodoro si ritira sulle coste del Mar Ionio e a Vivario fonda un monastero e un eremo. Gli restano ancora molti anni da vivere, abbastanza per sottrarre all’oblio, mentre intorno a lui il potere ostrogoto si disgrega, ricche testimonianze della cultura classica. Assai diversa era stata la prima parte della sua vita. Nato in seno a una prominente famiglia dell’antica aristocrazia senatoria romana, Cassiodoro entra giovanissimo nell’amministrazione dello Stato, dove conquista posizioni di crescente responsabilità.
A queste due fasi della sua esistenza corrispondono giudizi radicalmente contrapposti dei posteri: meritoria e ammirata l’attività culturale del Cassiodoro ormai anziano, criticata quando non disprezzata la sua attività al servizio dei re Ostrogoti in Italia. Nel Declino e caduta dell’impero romano Gibbon lo riduce a un ruolo marginale, ma è dall’astio di Theodor Mommsen che Cassiodoro non si è mai del tutto ripreso: pavido e astuto, vaniloquente e servile, un cortigiano preoccupato solo di non essere travolto dalla caduta di un regno ormai in declino.
Non poteva andar meglio all’opera che raccoglie i suoi sforzi di civil servant e politico: delle Varie mancava addirittura fino ad oggi una traduzione integrale in una lingua moderna, per non dire un commento. Andrea Giardina, ai cui saggi va il merito di aver reimpostato su nuove basi il complesso intreccio tra retorica e politica in Cassiodoro, rimedia ora a questa omissione recuperando finalmente all’uso, coadiuvato da una prestigiosa équipe, un’opera insolita e ricchissima.
Nei 12 libri delle Varie (così intitolate, spiega l’autore, soprattutto per la varietà degli stili che impiegano, dal più solenne al colloquiale: talora, rivela, «evitare quello che piace ai dotti è una forma di abilità»), si condensano infatti quasi tre decenni di carriera vicina al cuore del potere durante i quali Cassiodoro, la voce ufficiale del regno, corrisponde con re e principi, dirige a distanza l’amministrazione periferica, in parte capo di gabinetto, in parte ministro degli esteri, sempre eminenza grigia.
Cassiodoro vedeva nel suo lavoro tutto meno che l’esecuzione passiva delle altrui direttive. L’eloquente prefazione all’opera è costruita in forma di un dialogo tra l’autore e un gruppo di dotti che cercano di vincerne la presunta riluttanza a dar corso al progetto. La loro descrizione delle Varie –«in nome dell’autorità regia correggi i costumi depravati, spezzi la temerarietà dei trasgressori, restituisci il timore alle leggi»– attribuisce a Cassiodoro un potere e un’influenza che, pur in nome del re, acquista uno spessore politico e culturale proprio, non foss’altro che l’attenta scelta di cosa includere o cosa invece omettere.
Questo, lo esortano gli amici, è uno «specchio della mente»: non, come ci si potrebbe aspettare, quella del principe, ma di Cassiodoro. Ne risulta un corpus poliedrico che è insieme storia ufficiosa del regno, trattato pratico di filosofia politica e spazio per digressioni erudite su argomenti scientifici e artistici. Cassiodoro scrive ai potenti del tempo suggerendo cautela e benevolenza, traducendo in azioni concrete, puntuali, quella «pubblica felicità» che Gibbon leggeva come cifra dominante del regno di Teodorico.
Qui tacciono le guerre e i conflitti intestini, le congiure di palazzo e le tensioni tra Ravenna e Bisanzio. In assenza di altre fonti non sapremmo mai, dalle Varie, che Boezio e Simmaco sono caduti in disgrazia e hanno perso la vita sul patibolo.
Non perché, come a lungo si è preferito credere, le Varie altro non siano che una sequela di panegirici in lode del principe; piuttosto, le regole delle raccolte epistolari, che consentono di selezionare il materiale e riorganizzarlo secondo un disegno mirato, facilitano in questo caso la costruzione di un’idea virtuale del regno.
Poco importa a Cassiodoro giustificare Teodorico, o se stesso. Quel che conta è dimostrare in concreto come la tradizione secolare dell’amministrazione romana riesca a sopravvivere in circostanze nuove grazie a un sistema di regole e di leggi che rivelano tutta la loro forza proprio nella capacità di adattarsi. Il potere è in mano ai Goti «per diritto di conquista» (ancora Gibbon), ma è il questore romano a riversarlo ed esprimerlo nelle forme proprie della civilitas, un termine che dalla sua accezione originaria di carattere politico sta già declinando verso la nostra «civiltà». E i Goti, d’altronde, sono tutt’altro che barbari parvenu, come Cassiodoro aveva dimostrato nella sua Storia gotica.
Alla retorica della nostalgia per gli estremi aneliti di un potere romano ormai travolto dalla storia, le Varie preferiscono la realtà di una fusione creativa tra l’insuperabile elaborazione teorica ereditata dal passato e il vigore (tale fu per lungo tempo) dei nuovi regnanti. Così facendo Cassiodoro si aliena le simpatie di chi avrebbe preferito vederlo martire insieme a Boezio, ma dimostra di credere anche in campo politico e burocratico a quell’ininterrotta continuità della cultura antica che su un altro versante motiva sia la grandiosa struttura delle Istituzioni, sia i suoi sforzi organizzativi per rifondare su nuove basi la trasmissione dei manoscritti classici.
Alle Varie, questa «informe enciclopedia del sapere tardo antico» secondo la felice definizione di Arnaldo Momigliano, è toccata finora maggior fortuna come repertorio di fatti che come opera organica. Oggi, per questo dotto epistolario egregiamente tradotto e commentato, si apre una stagione nuova. È infatti probabile, e di certo auspicabile, che una maggiore facilità di accesso, non da ultimo a un latino ricco ma insolito, ne promuova una lettura meno segnata dai pregiudizi, che rinunci al sogno di un Cassiodoro eroico ma ne apprezzi la laboriosa sapienza.