Da: Rendiconti della Accademia di Archeologia Lettere e Belle Arti di Napoli, n.s. 76 (2011-2013), pp. 401- 404.
La vicenda personale di Lorenzo Viscido può essere presa a simbolo di quanto è avvenuto, negli ultimi decenni, a molti meridionali che, dopo buoni studi e con ottime premesse (si è laureato a Salerno con Antonio Salvatore, e fin da giovane ha cominciato a pubblicare apprezzabili studi sul suo autore preferito, Cassiodoro) sono stati costretti dalle vicende della vita a scegliere la via dell’emigrazione, privando sé della gioia di vivere nella propria terra e l’Italia di capacità e ingegni che sarebbero potuti essere preziosi.
Per Viscido, però, non si è trattato di una scelta vera e propria, ma piuttosto di una necessità: Senerchia, dove si era trasferito dall’originaria Squillace (perciò Cassiodoro!), fu distrutta dal terremoto del 1980, con tragedie personali che colpirono anche lui, e soprattutto dissestarono le sue condizioni al punto che dové trasferirsi negli Stati Uniti d’America, presso alcuni parenti.
Lì ebbe modo di farsi conoscere e apprezzare dalle comunità italoamericane, poté dimostrare le sue qualità e vivere un’esistenza se non felice almeno sufficientemente serena, tornare periodicamente nella sua Calabria, continuare a coltivare, come passione personale, i suoi studi di latino.
Nascono così anche le sue poesie, i Poematia del 1987 e le altre composizioni che continuano ad apparire negli anni successivi nei periodici internazionali che ospitano questo tipo di produzione letteraria, come Vox Latina e Meander .
Secondo la migliore tradizione che ha visto, in Italia, nel Pascoli il più capace e noto esponente, Viscido ha partecipato anche a vari certamina, meritando medaglie e publicae laudes che lo hanno confermato nella decisione di proseguire nella sua attività, come del resto hanno fatto le varie favorevoli recensioni da cui sono stati accolti i Poematia, fra i quali mi fa piacere ricordare il collega latinista di Lisbona Paulo Farmhouse Alberto, legato all’Italia da preziosi rapporti di studio con le università di Milano e di Trieste e con la nostra università “Federico II”, il quale nel 1987 gli ha dedicato una gratificante recensione sul principale periodico scientifico portoghese, Euphrosyne.
Da questa copiosa produzione Leonardo Calabretta ha selezionato e tradotto una trentina di carmi: un numero oraziano, visto che trenta sono anche le odi del terzo libro, quello che conclude la prima raccolta pubblicata dal poeta latino con l’orgoglioso Exegi monumentum aere perennius, e probabilmente non casuale, perché, come si dirà, Orazio non manca nelle poesie scelte per questo volume, sia come ispiratore di immagini e di espressioni, sia come protagonista di un carme fra i più belli e non a caso premiato con la medaglia d’argento al Certame Catulliano del 1986, l’Horati visum, “La visione di Orazio”.
Calabretta è anche autore di una breve Premessa al volume, in cui si illustrano i criteri editoriali e si richiamano sinteticamente le collocazioni che i carmi hanno avuto in occasione della loro prima pubblicazione. L’Introduzione è stata affidata a Giacinto Namia, anche lui un latinista calabrese ben noto agli studiosi: allievo, all’università di Messina, di Armando Salvatore, che è stato socio per trentacinque anni della nostra Accademia, ed era allora all’inizio della sua carriera di professore ordinario che lo vide poi per vari decenni titolare della prima cattedra di Letteratura latina a Napoli, quella del suo maestro Francesco Arnaldi, Giacinto Namia ci ha dato una finissima traduzione di Tibullo e Properzio nella nostra principale e più prestigiosa collana di testi latini, i Classici latini della UTET.
Namia si era già prima interessato alla produzione di Viscido, con una nota del 2005 su un periodico letterario, Rogerius, e qui fornisce una profonda e partecipe analisi dei singoli componimenti e della silloge che li raccoglie, indagando i motivi delle scelte e degli accostamenti, segnalando le tematiche più rilevanti e i modi scelti per affrontarle, percorrendo i precedenti antichi e le innovazioni che fanno dei carmi di Viscido un testo nuovo, ma pienamente meritevole di essere inserito in una serie che, dall’antichità al medioevo, da questo all’umanesimo, al rinascimento, al mondo moderno e contemporaneo, costituisce uno dei più vasti corpora poetici, per la quantità di opere, per l’estensione geografica, per l’influsso culturale sulle altre letterature di tante epoche e di tanti paesi.
Ventisei carmi brevi e quattro lunghi mettono in luce la versatilità dell’autore, che affronta con perizia metri fra i più svariati, propri della poesia classica (esametri e tetrametri dattilici, distici elegiaci, asclepiadei, ferecratei, gliconei, alcaiche, saffiche), o combinati in nuove mescolanze di esametri, distici, strofe saffiche minori, adoni, o addirittura creati su modelli medievali o riproducendo in latino i ritmi della poesia sillabica moderna. Questi ultimi meritano di essere citati, almeno per pochi versi, in modo che si possa gustare la cadenzata musicalità che accenti e rime sono capaci di produrre gli ottonari di Te, puella, quando cerno:
“Omni luce matutina
atque umbra vespertina
te, puella, quando cerno
ego tunc dulciter verno”,
o il succedersi di cola brevissimi in Lumen gratum, conclusi dal più lungo verso finale, che si può immaginare pronunciato, con solenne lentezza, da una profonda voce di basso:
“Lumen gratum
et beatum,
o dulcedo,
o albedo
tu decoris,
ne livoris
fiam praeda,
clara taeda
esto annorum
hoc in transitu meorum”.
Per gli altri componimenti, spiccano le tematiche autobiografiche, spesso legate al dolore, ma anche alla speranza: il terremoto, evocato negli esametri di Supremus amor, le morti immature, di tanti giovani e soprattutto di Laura, uccisa da un incidente stradale, le partenze che comportano un penoso distacco dagli affetti più cari, quell’insieme di sofferenze che fanno invidiare fiori e animali che sono liberi, se non da queste vicende (si pensi ai fiori recisi di Catullo e Virgilio), almeno dalla riflessione su esse.
Per concludere, come si è detto, l’Horati visum. Si segue lo schema tanto gradito a Pascoli, che prendeva spunto da un tema appena accennato in un classico per ricamarci su e costruire una sorta di epillio che finisce con l’arricchire, per il lettore moderno, di bellissime risonanze anche l’autore antico: si pensi al Senex Corycius e a quello che Pascoli, con l’aiuto dei commentatori antichi, seppe inventare su quella dozzina di splendidi versi delle Georgiche.
Orazio racconta che da bambino, stanco per il gioco, si addormentò una volta all’aperto, e fu per grazia di Apollo e delle Muse se si salvò da orsi e lupi, perché le colombe lo ricoprirono e nascosero con delle foglie, sicché i familiari dopo qualche angosciosa ricerca riuscirono a recuperarlo sano e salvo.
Viscido sostituisce al gioco una faticosa passeggiata col padre, nel corso della quale il bambino ottiene di potersi sedere e riposare un po’. Mentre il padre si allontana per raggiungere la fonte, dove Orazio lo raggiungerà, al posto del sonno c’è un sogno, o meglio una visione, che esplicita ciò che il poeta latino esprime sinteticamente: lì il destino poetico è profetizzato dall’intervento salvifico delle divinità della poesia, qui la Camena si presenta di persona al piccolo per dirgli quale sarà il suo futuro, l’amicizia con Virgilio, la protezione di Mecenate, la possibilità di trascorrere senza problemi economici la sua esistenza nel podere ricevuto in dono.
Qua e là tra i versi di Viscido sono abilmente inserite citazioni letterali da Orazio, che il lettore erudito riesce agevolmente a cogliere più per la memoria che per significative rotture stilistiche; questo è forse il massimo elogio che si può fare ad un poeta latino contemporaneo, ma è doveroso per chi dedica il suo tempo e la sua fatica a dimostrare che c’è ancora una continuità con quei tempi e quelle conquiste dell’umanità, e a riproporceli in forme che non presuppongono improbabili e sterili straniamenti dal presente, ma al contrario richiamano al mondo attuale e alle sue esperienze scoperte e bellezze che sarebbe grave perdere per incuria o peggio per dolo.
Giovanni Polara