“Dura lex, sed lex”. Arriva la condanna anche in appello per l’imprenditore squillacese Franco Paonessa, incappato nelle disposizioni previste dal decreto legislativo 231/2007, in materia di prevenzione del riciclaggio, poi modificato nel luglio 2017. Su un suo assegno bancario mancava la dicitura “non trasferibile” ed è stato sanzionato. Paonessa, utilizzando un vecchio carnet di assegni, ha agito nella massima tranquillità, dimenticando di apporre la dicitura “non trasferibile”.
«Un assegno – dice – emesso per pagare una fattura ad un unico intestatario. Altro che riciclaggio!». A partire dal 30 aprile 2008 non è più permessa l’emissione di assegni per un importo pari o superiore a 5000 euro, senza la clausola “non trasferibile”. A fine luglio del 2013 per saldare una fattura di acquisto per euro 5970, Paonessa compilava un assegno intestandolo al fornitore. Per procedere al pagamento si è ritrovato tra le mani un vecchio carnet riposto tra gli altri, non facendo caso che fosse privo della dicitura “non trasferibile”.
Per non incorrere in errore, si era abituato a scrivere su tutti gli assegni emessi, a prescindere della cifra, la dicitura non trasferibile. Purtroppo il carnet utilizzato, che era precedente alla legge, gli era rimasto inserito tra gli altri. Scoperta subito dopo la svista, chiedeva la restituzione del titolo al fornitore, il quale però lo aveva già presentato allo sportello della sua filiale, anche se non lo aveva ancora incassato. Successivamente il titolo è stato ritirato dal legittimo proprietario e annullato. Nonostante ciò, l’imprenditore è stato sanzionato. «Da una sanzione al di sotto di 200 euro – sottolinea – si è passati a 3040 euro euro oltre le spese legali. L’infrazione, infatti, comportava per la presentazione e il relativo incasso del titolo una penale inferiore a 200 euro, da pagare entro 60 giorni, ma dal momento che avevo fatto di tutto per dimostrare che si trattava di una mera svista, neutralizzato il “corpo del reato” attraverso il ritiro e l’annullamento dello stesso, mai incassato, credevo, essendo stato anche rassicurato dalla mia filiale, che non dovessi più pagare nulla».
Nonostante la dimostrazione tangibile della sua buona fede, dopo aver fatto tutto il possibile per evitare anche l’incasso, Paonessa è stato condannato al pagamento di 3040 euro. Anche se non c’è il dolo, insomma c’è la colpa: una beffa per l’imprenditore, che aveva proposto ricorso per una questione di principio, visto che poteva chiudere la vertenza con lo Stato pagando all’inizio una semplice multa di qualche centinaio di euro. E che ora si trova a dover pagare una sanzione alta e un nuovo contributo unificato, oltre alle spese legali.
Salvatore Taverniti